Celebriamo i 125 anni dalla nascita di Ernest Hemingway pubblicando la prima bozza del suo capolavoro, in seguito pesantemente rivista dall’autore stesso.
Era un vecchio bagno mobile, che presidiava il suo tratto di spiaggia libera di fronte al Golfo, ed erano passati ottantaquattro giorni da quando aveva potuto servire l’ultima persona che era venuta lì a stendere il suo telo. Per i primi quaranta giorni, uno spogliatoio per i bagnanti gli aveva tenuto compagnia; ma la lunga inutilità aveva attirato i bagnini del vicino stabilimento balneare, che avevano traslocato lo spogliatoio verso più utili lidi.
Il vecchio bagno mobile - il suo nome era Sebach - aveva rughe segnate sulla parete che dava a sud, e la screpolata dalla salsedine. Però, se ogni cosa in lui era vecchia, lo sguardo e la voglia di essere utile gli continuavano a guizzare negli occhi, tradendo la veneranda età.
Sebach guardava l’orizzonte del mare, la leggera increspatura. Faceva caldo, in quell’estate, e i bagnanti preferivano le comodità dello stabilimento: l’ombra degli ombrelloni e le sirene del bar, con i loro ghiaccioli e le birre in fresco.
Una mattina, puliti gli occhi dalla sabbia che la brezza notturna gli aveva spinto contro, vide che la cabina era tornata. Il vecchio bagno le aveva insegnato a presidiare con amore un tratto di spiaggia, a prendersi cura con garbate attenzioni dei bagnanti: a fare ombra, a dare respiro, a trasmettere fiducia - “le vostre cose saranno al sicuro, qui con me”, diceva la cabina. Il vecchio bagno le aveva insegnato ogni cosa e lei gli voleva bene per questo.
“Potrei tornare qui con te. Allo stabilimento sono arrivate delle nuove cabine; sono dipinte di colori sgargianti, attireranno i bagnanti e ci penseranno loro.”
“No”, disse il bagno mobile. “Rimani con loro, gli affari vanno bene, lì. Ti sentirai utile.”
“Però ti ricordi quella volta che siamo rimasti qui da soli per ottantasette giorni senza che passasse nessuno, e poi c’è stata quella famigliola e sono venuti qui per una settimana di fila, senza mancare un giorno?”
“Mi ricordo. E tu sei rimasta qui perché avevi fiducia.”
“Purtroppo sono solo una giovane cabina-spogliatoio, i bagnini decidono per me.”
“Lo so. Direi che è normale.”
“Non credono molto nella spiaggia libera, loro.”
“Non importa. Ci crediamo noi, e questo basta. Sappiamo che è il posto più bello e tranquillo del mondo. Che la sabbia è dorata e non nasconde mozziconi. Che l’acqua è trasparente e si vedono i piccoli granchi giocare a rimpiattino sul fondo. Che la musica non è un tormento, ma è la dolce ninna nanna delle onde. E adesso vai, torna da loro.”
Rimase solo, e passarono altri quarantacinque giorni. Una sera, vide un furgone parcheggiato sulla sabbia dello stabilimento. Strizzò gli occhi: sul cassone, strette da spesse cinghie, stavano quattro cabine rosse. Le stavano portando via? Avrebbe fatto quella fine anche lui? L’avrebbero portato chissà dove, lontano dal suo tratto di spiaggia, dal suo amato Golfo?
Dormì male, quella notte. Ma non si lasciò scoraggiare. La mattina, appena sveglio, fece quello che ogni mattina faceva, con sistematica religiosità. Sciacquò il pavimento in polietilene. Controllò che il rotolo di carta igienica girasse bene sul suo perno. Sgranchì il pedale dello sciacquone quattro, cinque volte.
Aveva appena finito di arieggiare il suo interno, che si rese conto di una cosa: c’era un telo steso sulla spiaggia, ad una cinquantina di metri da lui. Sentì uno sbuffare, e fu superato da una coppia di ragazzi che, una maniglia ciascuno, trasportavano un grosso frigo portatile. Guardò meglio: sulla battigia c’erano alcune ragazze. Fece un rapido calcolo: due ragazzi, alcune ragazze, quel telo non basta mica.
E infatti il telo si moltiplicò, la giornata fu movimentata e divertente, e nella notte ci furono le vampe di un falò.
E il vecchio Sebach, oggi, è ancora lì, a presidiare il suo tratto di Golfo. Insieme a quattro altre cabine rosse.