In occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione, vi parliamo di uno dei concetti chiave della nutrizione: la diversità.
Attraversate i social: quando di fronte all’obiettivo c’è il tema dell’alimentazione, l’ossessione sembra inevitabilmente accompagnarlo. Ci sono gli sportivi sintonizzati sulle proteine e sui pasti sempre uguali, purché assemblati grazie ad un virtuoso meal prep; ci sono quei pazzi del mukbang, che a favor di camera mangiano porzioni extralarge di alette di pollo, oppure di noodles, oppure di pizza; c’è pure l’influencer che a forza di parlare di cetrioli, riesce a ribaltare l’intero equilibrio ortofrutticolo dell’Islanda (sì, è una storia vera). Ma sono problemi del Primo Mondo. Tanto più che nemmeno i nostri marinai temono più il famigerato scorbuto per la mancanza prolungata di frutta fresca, né i contadini veneti la pellagra per l’abuso di sola polenta.
E poi c’è la povertà
Se invece volgiamo lo sguardo verso il sud del mondo, come la FAO ci ricorda di fare almeno ogni 16 ottobre, vediamo che per molte persone la monotonia della dieta - ad esempio riso, riso, riso - non è una scelta, ma addirittura una fortuna. La gamma di situazioni che porta ad una dieta carente, monotona, e poco nutriente sono diverse: carestie prolungate, conflitti armati, contorte situazioni geopolitiche. E poi c’è la povertà, la quale non necessariamente si coniuga alla scarsità di calorie… ma a quella di nutrienti, sì. Le popolazioni povere, ma anche i gruppi etnici con i redditi minori (come la comunità di colore negli Stati Uniti), tendono infatti a ricorrere al cibo a buon mercato: quello disponibile sugli scaffali dei supermercati, estremamente raffinato e quindi impoverito dei nutrienti (e viceversa carico di sostanze dannose per la salute), e paradossalmente poco costoso. Ma se gli agricoltori producono già abbastanza cibo nutriente per tutti, perché siamo arrivati a questo punto?
Monocoltura? No, grazie
Un pezzo importante di questa storia nasce ai tempi del colonialismo europeo (e già questo, di per sé, non è un buon pedigree). Le spezie in India, il tè a Ceylon, il cacao in America Latina e poi la canna da zucchero, le banane, le arachidi, il caucciù. Le nazioni europee conquistano le colonie, e inventano il latifondo, la coltura estensiva, la piantagione. E latifondo, monocultura, latifondo impoveriscono ogni cosa: il suolo, la biodiversità animale, la stessa ricchezza genetica delle specie coltivate. Basta pensare, citando la FAO, che solo 9 specie coltivate (su 6000) rappresentano il 60% delle produzioni agricole. Ed escludendo i fan delle dronate astratte, le monoculture impoveriscono anche l’estetica: chi ricorda la bellezza dei filari di vite che terminano con una pianta di rosa o un gelso? I filari di pioppi, in pianura, che bordano campi dai colori diversi? Gli orti, solo in apparenza disordinati, che si insinuano tra i frutteti? Che poi negli anni del boom economico si sia romanticizzata la storia della monocultura esotica - tra soap opera e uomini del monte - questo è un altro discorso.
Non bastavano i fagiolini?
Domanda aperta: nominate una persona che ha lasciato un’impronta durevole sul mondocosì come lo conosciamo . Qualcuno dirà Gesù, qualcuno Bill Gates o Steve Jobs (a seconda della religione), qualcun’altro . Solo chi ha letto Il dilemma dell’onnivoro di Micheal Pollan, giornalista e divulgatore americano (consigliatissimo), dirà Fritz Haber, il chimico tedesco. Stiamo leggeri e veloci, e perdonateci la semplicità. Prima di Fritz, la natura - anche quella coltivata - poteva produrre solo un determinato quantitativo di vegetazione: il limite era dato dalla quantità di azoto nel terreno. E questo azoto, al netto di qualche blanda fertilizzazione, chi poteva introdurlo tra le radici delle piante? Le leguminose. Ecco perché si praticava la rotazione dei campi. Fritz Haber inventa una cosa chiamata sintesi dell’ammonia la quale, sempre a farla semplice, permette di immettere nel suolo agricolo una quantità infinita di azoto. Benvenute monoculture moderne, vero elemento di non sostenibilità ambientale, economica e sociale.
La risposta non è una moltitudine
Eppure, la ricchezza genetica esisteva - ed esiste ancora. Viaggiate lungo le Ande, per esempio, e stupitevi della varietà di mais e di patate. Chiedete a chi si spertica per recuperare i frutti rossi del passato, dai nomi bizzarri: la corniola, la visciola, l’azzeruolo, il bricoccolo (non stiamo inventando nulla). Parlate con chi pratica il foraging - l’arte di raccogliere le specie selvatiche - nel rispetto di quello che la natura dà: si raccoglie il 10% di una pianta, non di più. A chi si fa il mazzo per recuperare tecniche agroalimentari rispettose non solo dell’ambiente, ma anche delle qualità organolettiche della materia “cibo”. Chiacchierate con chi pratica la permacoltura e con chi sperimenta l’agricoltura del far nulla (sì, esiste). E in fondo, anche con chi fa guerrilla gardening “perché le città si meritano più aiuole fiorite”, a chi si inventa apicoltore perché una volta ha letto che “se muoiono le api, muore il Pianeta” e ha capito subito il concetto; e a chi lascia il giardino di casa incolto perché il pratino all’inglese ha fatto il suo tempo… e l’ha fatto pure male. Funziona come per noi essere umani, insomma: la diversità arricchisce tutti.